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“Il dialogo del poeta con la tragedia e l’eternità” di James Curzi

Come Foucault, e Galzigna nell’ermeneutica del filosofo francese lasciano intravedere, talvolta in poesia si assiste a una scissione verticale <<del legame tradizionale e apparentemente necessario tra significante e significato>>(1). Il significante si autonomizza all’interno di un movimento in grado di raggiungere i limiti più estremi, configurando parole imperfette, prive di sintassi fissa, di sostegno, versanti in agonia su lidi ontologici incerti e precari, assomigliando sempre più alla follia tanto temuta dall’uomo dell’età classica. Colui che tentava invano di soffocarla tramite una rigida etica, che, tuttavia, altro non otteneva che il suo reinserirsi dalla porta di ingresso della morale stessa che vi aveva edificato a sua difesa. Un meccanismo difensivo fondato su azioni rimoventi e formazioni reattive – che sia nella renaissance che nel classicismo culminavano ancora nella pratica dell’internamento –, foriero di grandi spunti che conferirono sostegno allo sviluppo delle tesi del padre della psicoanalisi. (2)


Eppure, in quei singhiozzi morfosintattici, in quella precarietà ontologica che vede emergere la follia del poeta proiettata su una realtà di per sé anodina – di frequente nell’incapacità di riconoscerla come propria –, può esservi la possibilità di un coglimento ontologico più pregnante di ogni studio scientifico, e dell’esasperata razionalità tanto cara a noi occidentali. Razionalità e scienza, che tramite schemi matematici possiedono un valore meramente pragmatico e a cui non corrisponde nessuna “esperienza” effettiva, nel senso originario del termine; in cui l’elemento qualitativo ne resta inevitabilmente mutilato. (3)


Ovviamente la poesia nel suo legame con la contingenza è sottoposta al divenire, dunque a uno stato transitorio della temporalità; e nelle sue declinazioni orfiche, soventemente soggette a stati di incanto estatico, di per sé non in grado di rivelarci verità alcuna.


Verità che è da specificare non essere mai costruzione, aggiunta di teorie, bensì un lasciare emergere, “rivelazione”, “disvelamento”, come ci suggerisce Heidegger(4) risalendo alla radice greca del termine “Aletheia”. (5)


Tuttavia, nel discorso apparentemente privo di logica il poeta si ritaglia la via che lo riconduce alla tragedia, alla facoltà di esperirla come soggetto attivo e non come mero individuo, e al risveglio della consapevolezza del Dioniso Nietzschiano esiliato da Apollo. (6)


Poiché la tragedia è dionisiaca, e altresì lo è la realtà in quanto mai conforme – se non attraverso un’azione antropomorfizzante e illusoria dell’esistenza – al volere e alle logiche dettate dall’utile o dalla coscienza morale quale costruzione dell’uomo.


Nel ribaltamento del punto di vista tra, reale comunemente inteso e “normalità”, e il loro contraltare che può esprimersi, innocentemente, al di fuori delle contingenze a cui obbliga di necessità la prassi, è possibile dialogare con la propria follia e intravederne l’identità con il senso del tragico. L’identità di se stessi, tanto con la tragedia e lo spirito dionisiaco, dimorante silenziosamente al nostro interno, quanto con l’ordine e il sole del Dio Apollo. Divino elemento solare di cui tuttavia ne viviamo l’esperienza esclusivamente tramite la realtà percepita dal nostro spirito, che come ricorda Gentile è l’unica realtà che per noi ha rilevanza, bensì non necessariamente corrispondente a una realtà oggettiva, perfino nelle sue percezioni più razionali. La realtà di cui siamo partecipi, fosse anche solo come spettatori, è sempre filtrata dal nostro essere e avvinghiata in un dualismo dove sia essa, che noi in quanto soggetti, siamo sempre reciprocamente compresi.


Se, richiamandosi a Heidegger, le parole sono la casa dell’essere, dunque, nelle parole scritte, deturpate, autonomizzate nei loro significanti e svincolate da ogni convenzione comune, potrà allora esservi il potenziale per intravedere la realtà che sta al di sotto delle nostre idee antropomorfizzate dell’”Essere”. Sarà possibile, infine, scorgere il nostro riflesso sia nella luce della vita che nelle ombre crepuscolari della morte. Diventerà finalmente possibile intravedere queste due forze, vita e morte inappellabile – evadendo dal comune rapporto dicotomico in cui vengono poste usualmente dalla modernità -, in potenza sempre immanentemente affiancate, sul medesimo altare, da ragione e sragione, come al nostro interno e come un’unica cosa con noi medesimi.


Questo può condurci alla rivelazione di come il nostro esserci, il Dasein di Heidegger, contraddistinto dall’essere un essere-alla-morte (7), come possibilità ultima, irrelativa e slegata da ogni volontà, in realtà non sussista se non nella disciplina dell’apparenza del corpo; mentre in stadi di sostanzialità più profondi il nostro disvelare è un’azione di consacrazione all’eternità.


Come Apollo e Dionisio, dunque, la vita ordinata secondo i principi del logos (8), l’ebrezza disordinata e la causalità dei doni propizi della natura, restano parte integrante del senso tragico del reale che tutto sempre ha facoltà di sottrarre, e che a noi uomini sfugge se lo si vuole intendere con il semplice raziocinio o con la cecità della morale.


Mentre da un altopiano più elevato è possibile comprendere come il culto solare e la caotica ebrezza dionisiaca siano in verità riunibili sotto un unico numen (9) impersonale (impersonale se posto in relazione al giudizio umanamente concepito), di cui noi non siamo suoi servitori, bensì in esso eternamente compresi, e dunque partecipi della sua eternità.


È scrutando questo orizzonte, e immergendovisi dentro, che l’uomo rivede in se stesso il numen, e in tutto ciò che lo circonda il numen che lui stesso incarna. Evolianamente in tutto l’”Essere” l’uomo ha facoltà di riscontrare se stesso sotto l’aspetto reale dell’eterno.


Eternità che potendo essere umanamente percepita esclusivamente tramite lo spirito, che è pensiero, costringe a pensarsi sotto il profilo dell’ente imperituro, conducendo lo spirito, come ricorda Spinoza, a non dissolversi (quello di colui che raggiunge la coscienza del suo essere eterno) nell’attimo fatale del decadimento delle proprie caduche spoglie. (10)


La parola, essendo la casa dell’essere, lo è di noi stessi tanto quanto del numen, degli dei e in ultima istanza del reciproco rapporto di identità per essenza.


La parola è una via privilegiata che il poeta possiede per quel coglimento del reale, sovrasensibile, che è più reale di qualunque altra realtà materiale.


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Note Bibliografiche:

(1) Michel Foucault: “Storia della follia nell’età classica” – Rizzoli BUR classici a cura di Mario Galzigna – Introduzione P.27 e concetti analoghi sviluppati nel corso dell’opera.

(2) Ovviamente mi riferisco a Sigmund Freud.

(3) Per approfondimenti in tal senso: “Rivolta contro il mondo moderno” di J.Evola -Edizioni Mediterranee – 2010

(4) M.Heidegger – “Essere e tempo” (1927) – Prima sezione – “Il concetto tradizionale di verità e i suoi fondamenti ontologici”.

(5) Risalendo all’etimologia greca del termine verità, troviamo ἀλήθεια, alétheia, che è traducibile come «non nascondimento», <<svelamento>>, <<dischiudimento>>.

(6) F.Nietzsche – “La nascita della tragedia” (1872)

(7) M.Heidegger – “Essere e tempo” (1927) – Primo capitolo della seconda sezione.

(8) In questa sede da intendersi come “ragione”.

(9) Mi riferisco alla concezione di numen tipica della fase più arcaica della religione romana. 

Il riferimento primevo alla divinità non lega l’idea di nume a un dio specifico, ma a una forza superiore, indefinita e potente non ancora soggetta né alle antropomorfizzazioni del paganesimo politeista, né a quelle delle religioni monoteistiche come avviene per esempio nel cristianesimo. Poteva intendersi anche come “volontà divina della natura”, che, a mio avviso, concorda in buona parte con il “Deus sive Natura” e il concetto di “sostanza” sviluppato da B.Spinoza nella sua Etica.

10) B.Spinoza – “Etica” V° parte.

 
 
 

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