
Articoli e Saggi brevi
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«Nietzsche, flusso e indeterminazione: Eraclito, Parmenide, Evola e la lezione epistemologica»
«(...) L’argomentazione intende così mostrare come l’eventuale – non necessaria – dissoluzione del nesso causale non implichi il caos, ma l’affermazione di un ordine più alto e libero, in cui l’atto conoscitivo e l’Essere coincidono nel medesimo movimento creativo (...);
(...) Nel riconoscere tale identità dinamica, l’uomo accede a una libertà non più condizionata dal divenire, bensì radicata nell’atto stesso che lo fonda: libertà che non nega il mondo, ma lo trasfigura, facendo di ogni contingenza un gesto dell’Assoluto che si rivela nel tempo senza mai esaurirvisi, e senza mai essere niente di diverso dall’Io.»
Pubblicazione del 02 novembre 2025
«Soggettività, Storiografia e Verità Storica»
«(...) Alla luce di quanto fin qui esposto, dovrebbe risultare evidente l’esigenza di dubitare di qualsiasi lettura storica che, fin dall’infanzia, ci viene presentata nelle scuole come unica verità possibile. Ogni presunta oggettività è sempre ancorata a un criterio, e il criterio non è mai neutro. Chi interpreta, chi seleziona i dati, chi ordina gli avvenimenti in una sequenza dotata di senso, elabora inevitabilmente un sistema di idee; e le idee, come abbiamo mostrato, non sono mai semplici rappresentazioni, ma atti produttivi, atti di volontà, atti di potenza.
Di conseguenza, anche la ricostruzione più “razionale” presuppone sempre un punto di vista, ossia un principio ordinatore non rinvenibile nel reale, ma posto dallo stesso soggetto che interpreta. (...)
(...) La verità storica è quindi sempre relativa a un sistema di valori, a una Weltanschauung. Tuttavia, non tutti i valori risultano equivalenti: esclusivamente quelli trascendenti, quelli che partecipano dell’immutabilità e della verticalità dell’Assoluto, possono essere considerati dei criteri adeguati per una storiografia autentica. Essi soli permettono di stabilire un grado di verità che non sia arbitrario né psicologistico, bensì proporzionato al livello più alto di realtà, cioè al livello più elevato di... (...)»
Pubblicazione del 02 dicembre 2025
«Passaggio al bosco, retorica democratica egualitaria e crisi dell’Europa»
«(...) Sarei estremamente curioso di comprendere per quali specifici contenuti, libri, passaggi, entrando nei meriti esatti delle motivazioni, una casa editrice debba essere definita nazifascista e per quale motivo stia commettendo un crimine. Si conosce con esattezza le pubblicazioni che si accusano? O si guarda soltanto, distrattamente, le loro copertine? (...)»
«(...) Quanto scrissi in un articolo al momento dell’insediamento di Trump⁵, ovvero che si sarebbe aperta una finestra da sfruttare per i paesi europei, viste le scelte governative più isolazioniste della sua concezione politica – anche se in verità sono scettico in merito a una rinuncia degli USA a una qualsiasi forma di egemonia sul continente europeo, ma non ci soffermeremo adesso su questo – sta divenendo manifesto a tutti.
Si inizia a parlare di inutilità dell’Europa, di ritiro dalla NATO della presenza degli Stati Uniti, del bisogno di costruirsi una capacità di difesa propria, e di un cambio di direzione culturale. Musk, uno degli uomini più influenti al mondo, sembra premere per uno scioglimento dell’Unione europea. Per molti una tragedia – e potrebbe così rivelarsi – per altri una finestra aperta a grandi progetti... (...)»
Pubblicazione del 08 dicembre 2025
«Il lontano e l’oblio della prossimità: sul sentimentalismo dell’uomo moderno»
«(...) Se davvero si trattasse di un amore scaturente dalla potenza di chi ha raggiunto il punto di indistinzione tra sé e il molteplice – prerogativa di un Io che si riconosce nella dimensione dell’eternità – non assisteremmo certo al disprezzo, o alla fobia, che la maggior parte degli individui odierni nutre verso termini come razza, nazione, stirpe, continente europeo: in breve, verso qualsiasi principio capace di generare un’identità fondata su un legame di vicinanza attiva. I nostri concittadini non voglio sentirsi né italiani, né europei, occidentali… (...)»
Pubblicazione del 08 ottobre 2025
«Otto von Bismarck: tutore della Corona e architetto dell’ordine europeo»
«(...) egli fu il primo a introdurre una legislazione sociale di ampio respiro (assicurazioni contro malattia, infortuni, invalidità e vecchiaia).
Lui stesso spiegava la logica di questa politica in un discorso al Reichstag del 20 marzo 1884:
«Se non vogliamo che la classe operaia si abbandoni alle tentazioni socialiste, dobbiamo dimostrare che lo Stato è un’istituzione non solo per la protezione dei benestanti, ma anche per la cura dei deboli»⁵.
Queste riforme, lontane dall’essere espressione di filantropia, rispondevano a una precisa logica conservatrice: sottrarre le masse alla seduzione del socialismo, dimostrando che lo Stato... (...)»
Pubblicazione del 21 settembre 2025
«“La vittoria navale”: riattualizzazione del mito e tensione eroica in D’Annunzio»
"(...) il sonetto non si riduce all’evocazione di un reperto archeologico, ma lo riattualizza sotto l’ottica di un eroismo panico⁷, proponendo una religione estetica fondata sul ritorno al classico come forza attiva e ignea, non come cristallizzazione museale. Il mito non è pietra fredda, ma energia archetipica che riaffiora per chi sappia suscitarla. Il poeta si fa veggente, sacerdote e guerriero, restituendo luce e potenza a una dimensione celeste della vittoria, intesa come conquista spirituale, di cui quella materiale è soltanto una risultante che rientra nell’ambito di pertinenza dei mezzi. (...)" Pubblicazione del 03 settembre 2025
“Il linguaggio, sorgente delle origini”.
Un’indagine filosofica sull’essenza del linguaggio, dove con l'esperienza, l'espressione e la manifestazione si rivela come un unico atto fondativo dell’Io.Un percorso che parte dall’etimologia e approda a una visione ontologica profonda, tra pensiero tradizionale, idealismo e metafisica.
Pubblicazione del 06 agosto 2025
"Il silenzio che vibra sulle labbra serrate..."
«Il silenzio che vibra sulle labbra serrate della nostra gioventù è il segno della decadenza conclamata di questo onirico avvenire “illuminato” che la società progressista ormai da oltre due secoli – pur con qualche piccolo sussulto, come nel corso del ‘900 – ha continuato ad alimentare, mascherando...» Pubblicazione del 27 luglio 2025
"Cenni teoretici sul potere e la sua legittimazione".
«Ogni legittimazione del potere presuppone una concezione dell’Essere. La questione non è dunque preliminarmente politica, ma ontologica: si tratta di comprendere se esista un principio primo da cui derivi l’ordine del mondo e, conseguentemente, la gerarchia...»
Pubblicazione del 23 luglio 2025
"Dialogo con Heidegger, tra Humanitas, Magna Grecia e Romanitas"
«Se la Grecia osservava l’Essere, Roma lo realizzava nel mondo sensibile attraverso l’azione ordinatrice, trasformando la potenza originaria in struttura gerarchica, in civitas. Non per brama, bensì per vocazione divina: Roma agiva in nome dell’invisibile, e solo per questo il suo dominio era legittimo.» Pubblicazione del 20 luglio 2025
"Impariamo la lezione di Klemens von Metternich"
Klemens von Metternich è uno degli esempi di politici a cui guardare per chiunque si definisca un vero conservatore, anziché meramente rinvangare ideologie nazionalistiche del secolo scorso che sono fallite «anche» per motivi di pura contingenza, ma non solo… poiché in realtà non tutta la sostanza umana fu all’altezza dei Principi professati, e inoltre fin da subito erano presenti i caratteri tipici del fanatismo, oltreché teorie populistiche che poco hanno a che vedere con gli ideali aristocratici che dovrebbero contraddistinguere il nostro indirizzo etico politico. Pubblicazione del 16 luglio 2025
“Ravendusk In My Heart” (1996) – Nel Crepuscolo del Corvo: L’Essere che Sussurra nel Cuore
Questa volta ho deciso di trattare un argomento diverso da quelli a cui consuetamente ci rivolgiamo in questo nostro piccolo spazio… Ma che tuttavia ha una perfetta continuità con i nuclei dei nostri temi; essendo essi passibili di essere rinvenuti, o applicati, anche su altri orizzonti, e dunque oggi ci inoltreremo nel cielo plumbeo del black metal scandinavo. Pubblicazione del 14 luglio 2025
"Vivere pericolosamente: tra filosofia ed etimologia dell’esperienza"
«Vivere pericolosamente» è una delle espressioni più celebri di Friedrich Nietzsche, che la scolpisce nel §283 de “La Gaia Scienza” (Die fröhliche Wissenschaft). In essa risuona un invito a vivere come esploratori dell’esistenza, a costruire città “ai piedi del Vesuvio”¹, a stare sempre sul limite del caos, nel rischio che rende la vita degna di essere vissuta. Pubblicazione del 09 luglio 2025
“L’Io come potenza di Julius Evola”
Un breve sguardo sul nucleo concettuale dell’Io come potenza, pubblicato oggi per Alessandria Today.
"...secondo quella che ritengo essere una lettura autentica del pensiero di Julius Evola, di capitale importanza risulta la nozione di potenza, da intendersi come libertà assoluta¹: libertà tanto di essere quanto di non essere; assenza di qualsiasi confine concettuale, spaziale o temporale, e di qualunque possibilità di definizione, propria dell’aspetto più elementare del Sacro. Una libertà che può essere risalita e riassunta a sé attraverso un lavoro di ascesi spirituale che privilegi l’esperienza — intesa come trapasso trasformativo — piuttosto che la mera conoscenza teorica.
Questa potenza, in quanto neutra, non antropomorfica ed esente da passioni, può essere riscoperta nel fondo dell’individuo come suo nucleo originario: Origine.(...)"
Pubblicazione del 06 luglio 2025
L’eroismo muto di D’Annunzio ne “L’arca romana” e “L’alloro oceanico”
Ne “L’arca romana” non c’è più nulla da conquistare: né la gloria, né l’amore illusorio dei sensi.Solo la “forma” persiste — (cioè la bellezza fissata nell’eternità, la dignità muta, <<l’Opera>> che sopravvive al corpo).Tuttavia non si tratta di un feticcio morto: bensì di un segno da custodire, un gesto interiore che può essere riconosciuto e rivissuto dai posteri: un passaggio di testimone.
Pubblicazione del 02 luglio 2025
“Brevi Cenni sulla via dello Spirito”
Qual è il vero punto dirimente tra una spiritualità alta e una spiritualità inferiore, o perfino assente? Quale ne sarebbe il valore assoluto, inteso nel senso più profondo del termine “spirituale”? Siamo forse dinanzi a un semplice prolungamento dell’istinto di autoconservazione, trasfigurato in linguaggio trascendente? Oppure la spiritualità autentica si definisce come un movimento che supera il naturale, per ascendere oltre l’essere determinato?
Pubblicazione del 14 maggio 2025
“Le Crociate (1096–1272) e l’ingenuità dell’uomo moderno”
Rientra nell’ignoranza storica e ideologica dell’uomo moderno — forse frutto di una mistica laica funzionale alla legittimazione delle società secolarizzate — far passare le guerre sante esclusivamente sotto il segno di meri interessi economici e territoriali o, nel migliore dei casi (dipende dai punti di vista), del fanatismo ideologico.
Pubblicazione del 09 maggio 2025
“Perché custodire la specificità etnoculturale”
L’universalizzazione estrema delle civiltà storicamente ha sempre condotto al declino delle identità politiche e culturali originarie e alla disfatta delle civiltà stesse, esattamente come il medesimo processo degenerativo lo si può ravvisare nel suo opposto, ovvero nel nazionalismo fanatico; aspetto cruciale che condusse alla disfatta dell’Europa Potenza in seguito alla sconfitta subita al termine della seconda guerra mondiale.
Pubblicazione del 18 aprile 2025
Post del Direttore

03 Dicembre 2025
Un piccolo saggio, di un autore distante dalla mia visione del mondo, che al tempo della pandemia – insieme al ben più impegnativo “Sorvegliare e punire” (1975) – mi aiutò non poco a comprendere cosa stava realmente avvenendo sotto le spoglie del “bene comune”. E, ripensando oggi al caso della “Famiglia nel bosco”, la sua attualità appare persino più evidente. Ci sono libri che osservano la contingenza rimanendo in superficie, registrando solo le forme con cui gli eventi si manifestano; e ci sono libri che, pur partendo da quelle stesse forme, riescono a sondare ciò che in esse si nasconde e le oltrepassa. Alcuni autori – per sensibilità, metodo o profondità analitica – riescono a toccare quei contenuti permanenti che riaffiorano, mutando veste, da un’epoca all’altra. Quando ciò accade, il loro lavoro resta attuale non perché descrive il presente, bensì perché ne coglie la struttura. È esattamente il caso di Foucault. La sua appartenenza allo strutturalismo, con la sua attenzione alle forme profonde del pensiero, consente di riconoscere come certi dispositivi – medici, politici, normativi – cambino volto senza mutare natura. Studiare le strutture significa vedere come il tempo modifichi le manifestazioni, non i principi che le rendono possibili. Ed è per questo che certi testi continuano a parlare, anche quando la contingenza muta: perché mostrano ciò che persiste sotto l'apparire fenomenico, e che quindi, inevitabilmente, ritorna.

03 Ottobre 2025
Nel passo che segue Schelling mostra come la coscienza nasca solo dal rapporto tra un atto libero del soggetto e l’opposizione di un oggetto. A livello fenomenico le due dimensioni appaiono irriducibilmente separate: libertà e oggetto, intuizione (il contatto immediato con la realtà) e concetto (la riflessione astratta e mediata) si danno sempre in reciproca tensione. Tuttavia, questa separazione è solo l’effetto di un’oblio: la coscienza, nel suo stato ordinario, ignora la propria unità originaria con ciò che le si oppone. L’oggetto ci appare come esterno e indipendente perché la mente non è consapevole della radice comune che lo lega al soggetto. Schelling chiarirà più tardi in modo esplicito — nella Filosofia della natura e nella Filosofia dell’identità — questa unità originaria che qui, nel Sistema dell'idealismo trascendentale appare soltanto accennata, mostrando come soggetto e oggetto siano in realtà due poli di una medesima realtà assoluta. «La coscienza nasce grazie al mio atto libero, in quanto gli è opposto un obbietto. L'obbietto ora esiste, la sua origine si trova per me nel passato, di là dalla mia coscienza attuale; esso è, senza la mia cooperazione. (Indi l’impossibilità di spiegare l'origine dell'obbietto dal punto di vista della coscienza.) Io non posso nell’astrazione compiere un atto libero, senza oppormi l'obbietto, cioè senza sentirmi dipendente da esso... Nessuna coscienza dell'obbietto senza coscienza della libertà, nessuna coscienza della libertà senza coscienza dell'obbietto. «Quando io ripeto liberamente l’originario modo di operare dello spirito nell’intuizione, cioè quando astraggo, nasce il concetto. Ma io non posso astrarre, senza intuire nello stesso tempo con libertà, e viceversa; dunque noi non siamo consapevoli del concetto se non in antitesi all’intuizione, né dell’intuizione se non in antitesi al concetto.» — Vedi Abhandlungen, Sämmtl. W., I, 370-1. [Schelling, Sistema dell'idealismo trascendentale, p.179, tradotto da Michele Losacco. Bari: Gius. Laterza & Figli 1908]

13 Settembre 2025
Certi metodi non cambiano mai: i liberali e i democratici, in ogni epoca e sotto ogni bandiera, hanno sempre saputo ricorrere alla stessa arma, quella della repressione delle idee in nome della Libertà. Robert Brasillach, scrittore e giornalista, ne fu vittima: fucilato nel 1945 non per azioni concrete, bensì per i suoi scritti, per le sue idee. «(...) La migliore ricompensa fu tuttavia il fragoroso affetto, succeduto al cameratismo della lotta, di cui mi colmarono i miei compagni di Je Suis Partout, e soprattutto l’amicizia adesso molto stretta con Robert Brasillach, questo essere squisito, sensibile, raffinato senza alcuna leziosità, così saldo nelle sue idee, provvisto di ogni talento, di cui qualche volta abusava un po’, ma con tanta deliziosa prodigalità, freschezza, buonumore ed un così naturale sdegno del sussiego. (...)» [Lucien Rebatet, 1941/47 – p.72, ed. settimo sigillo 1993] Rebatet stesso, autore di queste righe e compagno di Brasillach, fu condannato a morte nel 1946 per la sua attività giornalistica: la pena venne poi commutata ai lavori forzati a vita, fino alla grazia e liberazione nel 1952.

15 Ottobre 2025
António de Oliveira Salazar Economista (professore), giurista e teologo cattolico, nato nel 1889, Salazar prese la guida del Portogallo nel 1932, fondando l’Estado Novo: uno Stato autoritario di impronta organica, cattolica e corporativa, ispirato ai principi del diritto naturale e all’idea monarchica dell’ordine come riflesso di una gerarchia spirituale. Le sue idee, più vicine al realismo romano e alla tradizione cristiana che al fanatismo totalitario, condividevano con l’Italia fascista la volontà di restaurare un principio di autorità e di dignità nazionale, ma senza idolatria politica né esasperazione del culto della forza. Sul piano economico impose un rigore assoluto nella gestione pubblica, risanando le finanze dello Stato e restituendo equilibrio a un Paese che, prima del suo arrivo, era in rovina. La sua economia corporativa rifletteva l’idea cattolica della collaborazione tra le classi e il rifiuto, tanto del collettivismo, quanto del liberalismo individualista di tipo capitalistico. Parallelamente, e per converso, la sua politica sociale – ispirata alla dottrina della Chiesa e all’enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI – si fondava sulla centralità della famiglia, del lavoro e della giustizia sociale. Promosse forme di tutela del lavoratore, la previdenza corporativa, l’educazione morale e la cooperazione tra le classi, mirando a un ordine sociale organico, non livellatore e rispettoso delle capacità individuali, in cui ogni parte dello Stato fosse orientata al bene comune e alla dignità della persona. Durante la Seconda guerra mondiale, Salazar dimostrò un acume strategico quanto mai raro. Pur riconoscendo una naturale affinità con l’Europa autoritaria schierata contro il materialismo democratico e marxista, comprese che la disfatta del continente era imminente e che il Portogallo non avrebbe potuto sopravvivere a un conflitto diretto. Così, mantenne la neutralità, bilanciando l’antico Trattato di Windsor con l’Inghilterra (1386) – la più antica alleanza diplomatica tuttora in vigore, che garantiva cooperazione ma non sudditanza – con una prudente benevolenza verso l’Italia e la Germania. Concesse l’uso delle Azzorre agli Alleati non per fede atlantista, ma per puro pragmatismo politico: un calcolo freddo e lucido, volto a preservare la sovranità del Paese e la continuità della sua missione storica. Salazar evitò con intelligenza ogni guerra inutile. A differenza dei regimi totalitari continentali, come già accennato, rigettava il culto della forza fine a sé stesso e il leader carismatico di tipo bonapartista come centro esclusivo del potere — considerava certi aspetti del fascismo e del nazismo (da questo si distanziò anche dal paganesimo e dalla sua invasatura per la mistica del sangue) come deviazioni in cui l’autorità supera i confini della morale naturale, postulando al contrario un potere soggetto al diritto e alla realtà spirituale cristiana, in accordo con una certa natura etica dell'uomo. Tutto ciò non rinnegando le molteplici affinità spirituali con l’Europa tradizionale, ponendo quindi attenzione a non offendere le potenze dell’Asse mantenendo rapporti commerciali moderati – come nel caso delle esportazioni di tungsteno alla Germania – e una diplomazia abile, che gli consentì di non farsi considerare ostile da nessuno. Allo stesso tempo, cercò una pace stabile con la Spagna franchista, sancita nel Patto Ibérico del 1939, che garantì equilibrio e autonomia all’intera penisola. Con questa politica di misura e prudenza, riuscì a mantenere il Portogallo integro, sovrano (nei limiti del possibile) e rispettato da tutti i paesi, in un tempo in cui quasi nessun’altra nazione europea riuscì a evitare la catastrofe. Anche la sua politica coloniale rifletté questa attitudine di fermezza e coerenza: mentre il mondo imboccava la via della decolonizzazione forzata e della dissoluzione degli imperi, Salazar mantenne la sovranità portoghese sui territori d’oltremare – dall’Angola al Mozambico, da Goa a Timor – considerandoli tuttavia parte integrante della nazione, non mere colonie. In ciò si riconosce una concezione dell’impero affine a quella dell’antica Roma: non dominio brutale, altresì missione ordinatrice e civilizzatrice (cattolica), in cui l’autorità si fonda su una responsabilità superiore e su un'idea gerarchica del mondo. La sua Weltanschauung però non era espansionista, bensì conservatrice: difendere ciò che la storia e la fede avevano edificato (dalle imprese marinare del XV secolo e dalla missione cristiana nata con la Reconquista, che aveva proiettato il Portogallo verso l’Africa e l’Oriente) senza piegarsi alle pressioni delle potenze estere né ai dogmi dell’egualitarismo moderno. Il suo potere fu saldo, non fanatico, autoritario – per chi vi scrive semplicemente autorevole – ma non oppressivo: un’autorità esercitata come servizio all’ordine, sorta sulle fondamenta della competenza e dell'alto valore etico/morale, non come mera e bramosa volontà di potenza. In Salazar si manifestava l’idea – profondamente tradizionale – che la vera forza politica non risiede nella violenza o nell’ideologia astratta, ma nella capacità di incarnare il proprio principio cardine, adattandolo alle condizioni imposte dalla contingenza senza mai tradirlo. Non casualmente riuscì a governare il Portogallo praticamente fino alla fine dei suoi giorni (finché la malattia non glielo impedì) mantenendo intatti i fondamenti spirituali e politici del suo Stato, mentre tutta l’Europa intorno a lui crollava nel disordine più totale. Salazar rimane una delle ultime figure del Novecento in cui l’autorità non si disgiunse dalla misura, la sovranità non si piegò alla pressione straniera e la politica fu ancora arte dell’intelletto al servizio della Tradizione.

12 Novembre 2025
«La Sicurezza e la Spada» Quantomeno per quanto riguarda Firenze – ma dalle notizie che mi giungono pare che anche le altre regioni affrontino problemi analoghi – la questione della sicurezza appare sempre più critica. Una sicurezza messa ogni giorno in discussione da una criminalità che, inutile girarci intorno, ha sempre più a che vedere con quella porzione di popolazione non autoctona e non integrata. E, probabilmente, neppure integrabile, viste le profonde divergenze culturali e le motivazioni puramente utilitaristiche, per le quali tali movimenti nomadici decidono di approdare sulla nostra terra. Il continuare a far finta di nulla – o peggio ancora il disprezzare chi evidenzi la criticità della questione – da parte di certe forze politiche dichiarate, e il tramare nell’ombra di alcune istituzioni perché nulla cambi, non condurranno a niente di buono. Ormai quasi tutti sono da annoverare tra coloro a cui abbiano violato l'intimità della casa, o la propria attività, o peggio ancora che abbiano subito danni fisici. Premesso che non vi è certezza a priori nel mondo del fenomenico, l’analisi della storia mostra un’altissima probabilità che il continuo ignorare il tema della sicurezza – tema che per molti individui, soprattutto in un’epoca di uomini resi pavidi, e indifesi, da un costante lavoro di levigazione della virilità operato dal sistema, è di fondamentale importanza – conduca inevitabilmente a risposte estreme. Innanzitutto perché il timore genera sempre odio, e dall’odio scaturiscono reazioni estrinseche rispetto alla capacità di azione pura (autonoma) degli individui; in secondo luogo perché più la situazione si aggrava, più essa tende all’estremo, e come ogni malattia giunta allo stadio terminale, per essere curata richiederà misure terapeutiche invasive. Nell’aria si respira da tempo il sorgere di movimenti che ambiscono a riprendere in mano la spada. Chi ancora non se ne è accorto è perché non percepisce la possibilità delle forze che possono risvegliarsi nelle persone che, al di là delle idee politiche, sono sempre più unite nella loro angoscia e nella richiesta di sicurezza. Avrà sempre meno forza disaggregante la scelta del metodo da utilizzare per curare la malattia, di fronte all’ansia spasmodica delle masse. La spada verrà ripresa. Simbolo dai molteplici significati, che possiamo ridurre – per chiarezza – a un dualismo: da un lato la forza bruta, che trae la propria energia dal basso e si riversa in senso catagogico; dall’altro la forza spirituale, di origine sacra, che discende dall’indaco del cielo e dal sole che, penetrando l’ombra, individualizza e riporta in auge – in una spirale anagogica – l’Ordine. Nelle tradizioni indoeuropee la spada fu sempre attributo del kṣatriya, del difensore dell’Ordine contro il caos dissolutivo: strumento di giustizia, ma anche di consacrazione. Come ricordava Evola, essa non è mero mezzo di violenza, bensì prolungamento della volontà solare, emblema dell’azione pura che taglia l’illusione e ristabilisce la misura. Platone stesso, nel Politico, riconduce la regalità autentica alla capacità di “separare” e “distinguere” – ed è proprio il gesto del tagliare che la spada, simbolicamente, incarna. Essa divide per ristabilire l’unità, ferisce per guarire, distrugge per riportare alla forma. È l’arma dell’animo aristocratico, in cui la forza non è cieca, bensì diretta dall’intelligenza luminosa del Nous. Quell’Ordine eterno su cui si è fondata ogni grande Civiltà a noi nota. Il tempo ci dirà quale delle due possibilità prevarrà. Il momento è cruciale, e un cambio di passo sembra ormai cogente; perché possa compiersi positivamente, è necessaria una guida che sappia volgere la paura in un'azione precisa ed essenziale, non lasciando respiro alle forze regressive che, come già avvenuto in passato, resero la cura quasi peggiore del male. Il caos è ampio: nigredo della Civiltà che si dissolve. Ma solo transitando per la nerezza può sorgere l’albedo, e forse, più oltre, la rubedo dell’Ordine ritrovato.

05 Ottobre 2025
Nel 1917 la Russia attraversò una frattura profonda e decisiva: la caduta dello zar, avvenuta con la Rivoluzione di Febbraio per effetto di un moto spontaneo di masse – scioperi, manifestazioni e ammutinamenti dei soldati – fu rapidamente incanalata e guidata da alcuni politici della Duma, centro in cui si coagularono forze liberali e moderate (Cadetti, Ottobristi) insieme a socialisti menscevichi e socialrivoluzionari, che sfociò nella creazione del Governo Provvisorio. Contemporaneamente sorsero i Soviet di Pietrogrado, rappresentanze operaie e militari che incarnavano la pressione diretta delle masse profilando così la celebre situazione di “doppio potere”. Ancora per poco, a tutto ciò risultavano estranei i bolscevichi, che – guidati da Lenin – conquistarono il potere solo nell’Ottobre dello stesso anno, favoriti dal vuoto di autorità che si era creato. Questi eventi segnarono non soltanto un cambiamento politico, ma la rottura di un ordine tradizionale in cui lo zar incarnava una legittimità superiore, autocrate “per grazia di Dio” e custode della continuità spirituale della Nazione. La monarchia zarista rappresentava un potere sacro, radicato in un principio trascendente che legittimava l’autorità politica come funzione della gerarchia cosmica e della storia; la sua caduta aprì una fase in cui la dimensione trascendente del potere veniva sostituita da strumenti puramente ideologici e materiali. Tra Duma, Soviet e bolscevichi si delineò così un conflitto di legittimità: da un lato il Governo Provvisorio, espressione di un’autorità formale e liberale; dall’altro il potere rivoluzionario dei Soviet, che Lenin avrebbe poi utilizzato come veicolo per la conquista del potere nell’Ottobre rosso. I Soviet, nati come consigli spontanei di operai e soldati inizialmente dominati da menscevichi e socialrivoluzionari, vennero progressivamente conquistati dai bolscevichi. Questi ultimi, frazione radicale del Partito socialdemocratico russo, compattata da Lenin, si distinguevano per la disciplina ferrea, la centralità del partito come avanguardia e la volontà di un’immediata rivoluzione socialista. I bolscevichi, capitanati da Lenin, emersero come forza rivoluzionaria capace di sfruttare il malcontento sociale e la crisi della Prima guerra mondiale. Le Tesi d’aprile e gli slogan «pace, terra, pane» e «tutto il potere ai Soviet» non erano semplici promesse politiche, ma strumenti di mobilitazione che orientavano le masse operaie e contadine verso un progetto di radicale trasformazione. In questo senso, la rivoluzione assunse anche una forma populista: il richiamo al popolo contadino e agli operai riprendeva motivi propri del narodnichestvo, valorizzando le masse come soggetto politico, ma senza cedere a una reale autonomia del popolo. La rivoluzione bolscevica, infatti, differiva dal populismo classico per la centralità del partito come élite organizzata, capace di dirigere e plasmare la rivoluzione secondo la propria strategia. Così, la mobilitazione popolare divenne strumento di legittimazione del potere ideologico, più che espressione di un principio dotato di sacralità. In questo contesto, Stalin — inizialmente figura di secondo piano — iniziò a consolidare la propria posizione all’interno del partito; nel 1922 ottenne la carica di Segretario generale, attraverso la quale accumulò progressivamente potere politico e organizzativo. Alla morte di Lenin, nel gennaio 1924, si aprì la lotta per la successione, che vide Stalin prevalere sui principali rivali (Trotskij, Zinov’ev, Kamenev e Bukharin) grazie a una serie di alleanze strategiche e al controllo degli apparati. Negli anni Trenta, eliminati gli avversari e centralizzata l’autorità, egli trasformò l’eredità bolscevica in una dittatura personale: il potere, un tempo funzione sacra, fu ridotto a puro dominio terreno, sostenuto da fanatismo ideologico, repressione, livellamento e mobilitazione di massa. Queste vicende storiche mostrano chiaramente la sostituzione di una legittimità trascendente e tradizionale con un’autorità fondata sull’ideologia materialistica e sul controllo politico, rendendo manifesto come la rottura dell’antico ordine gerarchico da parte delle masse sia quasi sempre accompagnata da una strumentalizzazione del popolo e della mobilitazione sociale, sfociando in esiti drammatici di cui la tirannide livellatrice è la forma che storicamente si riafferma con più frequenza.

17 Agosto 2025
Un passo significativo dalla "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel, nella sezione riguardante lo Spirito e la libertà assoluta. Qui Hegel descrive il momento in cui l’autocoscienza si riconosce come Concetto universale, superando la frammentazione in «masse sussistenti e isolate», e affermando l’unità tra coscienza singolare e coscienza universale. È il punto in cui crolla ogni opposizione: tra sé e non-sé, tra soggetto e oggetto della conoscenza, tra realtà e spirito: ogni realtà è spirito. Cade altresì ogni distinzione tra essenza, intesa come pura determinazione concettuale di ciò che è soltanto in potenza (dynamis), ed esistenza effettiva, ossia la realizzazione piena e compiuta di tale potenza (entelecheia). La trascendenza sopravvive solo come impressione, poiché termina nella perfetta coincidenza con l’immanenza. Non vi è più bisogno né di una conoscenza razionale che tenti, illusoriamente, di non alterare l’oggetto per coglierne la natura autentica, né di una fede che colleghi la forma degli oggetti della coscienza a una realtà divina. In quanto questi movimenti della coscienza, di fronte alla consapevolezza del Concetto puro, si riducono a un’eco svuotato di vita. «Con ciò lo spirito è dato come libertà assoluta. Lo spirito è adesso l’autocoscienza che comprende se stessa nel senso che la sua autocertezza è l’essenza di tutte le masse spirituali, tanto del mondo reale quanto del mondo soprasensibile; viceversa: esso è questa autocoscienza che coglie se stessa nel senso che l’essenza e realtà sono il sapere che la coscienza ha di sé. L’autocoscienza è consapevole della propria essenza, e con ciò, di ogni realtà spirituale. Ogni realtà non ha più senso come propria volontà, e si tratta di una volontà assoluta: per la precisione, non si tratta del pensiero vuoto della volontà, riposto nel consenso tacito e nel consenso espresso per rappresentanza, bensì della volontà realmente universale, volontà di tutti i singoli in quanto tali. In sé, infatti, la volontà è la coscienza della personalità, di un Ciascuno; ora, essa dev’essere appunto questa vera volontà reale, dev’essere come essenza autoconsapevole della personalità di Tutti e di Ciascuno, affinché ciascuno faccia sempre ogni cosa in maniera indivisa: ciò che allora emerge come attività del Tutto è l’attività immediata e consapevole di Ciascuno. Questa sostanza indivisa della libertà assoluta assurge al trono del mondo senza che nessun potere sia stato in grado di resisterle. La coscienza, infatti, è in verità l’unico elemento in cui hanno la loro sostanza le essenze o potenze spirituali; e allora, nel momento in cui la coscienza singolare comprende l’oggetto come ciò la cui essenza è unicamente l’autocoscienza, quando lo coglie assolutamente come il Concetto, ecco che viene a crollare l’intero sistema di quelle potenze spirituali che si organizzava e si manteneva mediante la divisione in masse. Ciò che rendeva il Concetto un oggetto essente era la sua differenziazione in masse sussistenti e isolate; quando però l’oggetto diviene il Concetto, in esso non c’è più nulla di sussistente e la negatività ha penetrato tutti i suoi momenti. Quando il Concetto accede all’esistenza, ogni singola coscienza si innalza al di sopra della sfera cui era in precedenza assegnata, non trova più la propria essenza e la propria opera in questa massa di particolarismi, ma coglie il proprio Sé come il concetto della volontà e coglie tutte le masse come essenza di questa volontà: allora la coscienza non può che realizzarsi in un lavoro che è il lavoro totale. In questa libertà assoluta, dunque, sono aboliti tutti gli stati sociali, i quali costituiscono l’essenza spirituale in cui il Tutto si articola e si organizza. La coscienza singolare, che apparteneva a un membro di tale organizzazione e in questo ambito particolare esplicava la sua volontà e portava a compimento i propri fini personali, ha adesso rimosso il proprio limite: il suo fine è il fine universale, il suo linguaggio è la legge universale e la sua opera è l’opera universale. L’oggetto e la differenza hanno perso qui il significato dell’utilità, la quale costituiva il predicato di ogni essere reale. La coscienza non inizia il suo movimento nell’oggetto come in un estraneo dal quale solo allora essa ritornerebbe entro sé; al contrario, essa considera l’oggetto come la coscienza stessa, e l’opposizione consiste dunque unicamente nella differenza tra coscienza singolare e coscienza universale. Ma poiché la coscienza singolare sa se stessa immediatamente come quella che aveva soltanto la parvenza dell’opposizione, ecco allora che essa è coscienza e volontà universale. L’Aldilà di questa realtà della coscienza aleggia sul cadavere della scomparsa autonomia dell’essere reale e di quello della fede, aleggia semplicemente come l’effluvio di un gas inerte, come l’esalazione del vuoto Être suprême.» [G.W.F. Hegel – "Fenomenologia dello spirito"(1807), P.785/7 – Giunti editore, edizioni Bompiani 2017]

14 Agosto 2025
Molti oggi si scandalizzano – in parte giustamente – per le stragi di civili nelle attuali guerre in corso. Ma la storia è colma di tragedie simili. Una delle più devastanti, eppure spesso dimenticata, è quella di Dresda nel febbraio 1945. La città, celebre per il suo patrimonio artistico e architettonico, era allora poco rilevante dal punto di vista militare. Era anche rifugio di migliaia di profughi tedeschi in fuga dall’avanzata dell’Armata Rossa, che stava occupando le regioni orientali del Reich. Non si trattava di un centro strategico di armamenti e la Germania era ormai prossima alla resa. Eppure, tra il 13 e il 15 febbraio, Dresda fu sottoposta a una serie di bombardamenti a tappeto da parte della Royal Air Force inglese e dell’aviazione statunitense. In poche ore, la città fu devastata da ondate di bombe esplosive e incendiarie che generarono una tempesta di fuoco. Morirono circa 25.000 civili, secondo le stime più attendibili: in gran parte donne, anziani, bambini e rifugiati. Il centro storico fu raso al suolo, e con esso andarono perdute opere d’arte e simboli di una delle città più belle d’Europa. Gli storici concordano che l’impatto militare fu marginale: la strage non era necessaria per la vittoria, serviva esclusivamente a spezzare il morale tedesco e a mostrare forza in un momento in cui la guerra era già decisa. Più che un’azione militare, si può interpretare come un’umiliazione deliberata: un atto simbolico di potere che travolse, di proposito, civili innocenti. Perché questo episodio è poco ricordato? Perché il modo in cui interpretiamo gli eventi dipende dal racconto che il potere ne fa. Come scriveva Foucault – già ai tempi del celebre "Sorvegliare e punire" (1975) – il sapere è veicolato dal potere: ciò che appare “giustificato” o “necessario” in guerra lo è in funzione di interessi geopolitici, non di un’etica universale. Potere e sapere, secondo il filosofo francese, formano una diade inscindibile: chi detiene il potere, detiene il sapere. E chi veicola il sapere – colui che ha il potere – rinforza il suo dominio, plasmando la cultura e l’opinione della società. E forse bisogna dirlo: anche una guerra che possiamo considerare realmente “inevitabile”, se combattuta fino in fondo da entrambe le parti, non può evitare crudeltà e apparenti ingiustizie. È nella natura stessa del conflitto totale: quando nessuno si arrende, ogni mezzo diventa estremo.

Adriano Romualdi (9 dicembre 1940 – 12 agosto 1973) Filosofo, saggista e politico italiano, Adriano Romualdi è stato una figura di spicco della cultura tradizionalista e del pensiero identitario italiano del dopoguerra. Allievo attento di Julius Evola, Romualdi ha approfondito la comprensione delle forme storiche come manifestazioni di archetipi metafisici eterni, che si ripresentano ciclicamente nel corso del tempo. Tra questi, il mito dell’ordine romano, simbolo per lui di una realtà sacra e ordinatrice, incarnava la continuità di un principio superiore. Romualdi poneva grande attenzione al concetto di continuità storica, di contro a quello di rottura delle rivoluzioni, proponendo, casomai, una rivoluzione conservatrice, volta a ristabilire un principio originario che, seppur adombrato, risulta, in quanto struttura dell'Essere, eternamente presente. Essendo tuttavia consapevole che la tradizione, per rimanere viva e rilevante, necessita di essere riadattata alle esigenze contingenti della modernità (sviluppo tecnologico, militare, avanzamento del sistema produttivo, ecc.ecc.), senza però tradire la sua essenza profonda. Critico severo delle società demoliberali moderne e dei principi della Rivoluzione francese, che considerava causa di decadenza politica, culturale e spirituale, egli ha sostenuto con forza la necessità di un’Europa imperiale, unitaria e organica, al di là delle divisioni nazionali, fondata su valori spirituali e culturali comuni. Una struttura europea, quella imperiale e organica, che, a suo avviso, sola poteva offrire la possibilità di sfuggire alla morsa a tenaglia rappresentata, ai suoi tempi, da USA e URSS — morsa nella quale oggi, mutati i protagonisti, la Cina ha sostituito l’Unione Sovietica. Adriano Romualdi ha lasciato un’eredità intellettuale che ispira tutt'ora molte realtà culturali impegnate nel recupero e nella difesa del patrimonio spirituale europeo, sotto il segno di una Weltanschauung tradizionalista ma ben radicata nelle esigenze pragmatiche imposte dai tempi ultimi.
12 Agosto 2025

📜 Fides. Vincolo e certezza che libera. Scriveva Evola riguardo alla fede: «In latino il senso di questo termine non è la “fede” come viene intesa oggi, ma è soprattutto la fedeltà: a un impegno, a un giuramento, a un patto, alla parola data, a un vincolo liberamente accettato. Di là dal mondo soltanto umano, la fides diviene “fede” in senso superiore: si estende alle relazioni con potenze superiori, ed allora essa fonda la religio, termine che in origine significava “collegamento” fra l’individuo e il divino. Il presupposto esistenziale della fides nel primo senso, e insieme ciò di cui essa è manifestazione, è la virtus, non nella sua accezione moralistica, ma in quella di fermezza interiore, di drittura.» — Julius Evola, Il Conciliatore, XXI, 2 (febbraio 1972), pp. 66-67. La fides, nel mondo romano e tradizionale, non designa una credenza cieca o un’abdicazione della ragione, ma un atto di fedeltà attiva, liberamente scelta, fondata sulla virtus intesa non come semplice moralità, ma come forza interiore e saldezza spirituale. Etimologicamente, fides discende dalla radice indoeuropea bheidh-, che significa “affidarsi, legarsi, essere saldo”: da qui si comprendono in modo organico i due significati di fede e fedeltà, che non sono opposti bensì complementari. La fede autentica è sempre anche fedeltà, tradizionalmente intesa alla stregua di un vincolo ontologico con ciò che è stabile, divino e superiore. Ed è proprio questo vincolo a costituire la religio nel suo senso più antico: re-ligare, ricollegarsi all’Essere. In questa direzione, anche un pensatore moderno come Erich Fromm, in "Psicoanalisi della religione"¹ – abbeverandosi dalla fonte dell'etimologia ebraica del termine fede, “emunah“ – pur lontano dalla visione tradizionale, ha colto un aspetto essenziale. In tale opera egli afferma che la vera fede è una convinzione radicata nel sistema di orientamento dell’individuo; una certezza indubitabile da ravvisarsi nel contenuto della propria esperienza interiore, non una convinzione irrazionale o una fede cieca in un'autorità esterna. E anche in "La rivoluzione della speranza"³ chiarisce ulteriormente che la fede è riconducibile a una forma di certezza dell’essere, e non a una credenza astratta in un qualsiasi oggetto da idolatrare. Fromm, dunque, pur da una prospettiva psicoanalitica, riconosce che la fede autentica non è credulità, ma certezza radicata nella struttura profonda dell’essere, che si manifesta come forza interiore, un atto della persona totale. Possiamo allora affermare – in continuità con la Tradizione – che la vera fede non è sottomissione, ma azione di libertà ontologica: è il vincolo più elevato, poiché è stato scelto, e perché può essere fondato su ciò che vi è di più certo e immutabile — l’Essere stesso, che nel linguaggio sacro corrisponde alla divinità. In questo senso, il fedele è l’uomo libero, in quanto si è vincolato autonomamente a ciò che è Assoluto e non transitorio. E tale vincolo non è soltanto una dimensione etica alienata da sé, ma un’operazione spirituale, una realizzazione interiore. A guidare questo processo, nella civiltà tradizionale, era la figura del teologo nel senso originario: non un accademico della speculazione, ma una guida ascetica, un uomo che aiutava l’anima a riscoprire in sé il divino. Il vero teologo era Pontifex⁴ – colui che costruisce il ponte tra umano e divino – e in molte civiltà, come ricorda Evola e insegna Guénon, il Pontifex era anche Rex, a testimonianza dell’unità primordiale tra autorità spirituale e autorità regale. E il grado di libertà a cui ogni singolo uomo può pervenire è strettamente collegato alla quantità di sostanza divina che riesce a riconoscere in sé stesso. La fides, allora, non è solo fondamento del culto, ma fondamento dell’ordine: essa unisce la terra al cielo, l’uomo al principio, la libertà al sacro riconosciuto in sé stesso. La fides è la pronta risposta incondizionata alla domanda: cosa vi è di più libero e certo, se non l'Assoluto? Ed è solo in questa fedeltà superiore, fondata sulla sicurezza dell’Essere ineffabile, che l’uomo diviene realmente ciò che è. 📚 Fonti: ¹Julius Evola, Il Conciliatore, XXI, 2, 1972 ²Erich Fromm, Psicoanalisi e religione, Astrolabio, 1961 ³Erich Fromm, La rivoluzione della speranza, Il Saggiatore, 1969 ⁴cfr. René Guènon, Il re del mondo, capitolo , "Regalità e pontificato", piccola Biblioteca Adelphi, 51, 1977, 24ª; Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Roma, Edizioni Mediterranee, 2007 (I ed. 1934)
31 Luglio 2025

29 Luglio 2025
29 luglio 1917 – Gli Arditi – Onore, sacrificio, ardimento Gli Arditi furono reparti speciali d’assalto del Regio Esercito Italiano, istituiti il 29 luglio 1917 da Re Vittorio Emanuele III, nel contesto della Grande Guerra, per rispondere allo stallo delle battaglie di trincea. Selezionati tra i soldati più determinati e coraggiosi, gli Arditi si distinguevano per la rapidità d’azione, il combattimento ravvicinato e l’impiego di armi leggere come pugnali, bombe a mano e pistole. Operarono principalmente sul fronte nord-orientale, nelle operazioni contro l’esercito austro-ungarico, distinguendosi nelle battaglie del Grappa, del Piave e infine nella decisiva offensiva di Vittorio Veneto (1918). La loro figura trascende il piano tattico-militare: rappresentavano una nuova aristocrazia dello spirito, votata al rischio e alla fedeltà all’onore, secondo un’etica non del numero ma della qualità. Il motto, “Chi osa vince”, riassumeva la loro visione dell’esistenza come prova e superamento. Dopo il conflitto, alcuni Arditi parteciparono all’Impresa di Fiume (1919-1920), accanto a Gabriele D’Annunzio, in un’esperienza che fuse ardore guerriero, estetica eroica e tensione verso un ordine superiore. È importante distinguere il corpo militare degli Arditi, legato alla Grande Guerra, dalle successive formazioni politiche che ne ereditarono il nome in contesti differenti, e non sempre coerenti con il loro spirito originario. Da una prospettiva tradizionale, si può riconoscere che l’Italia – allora guidata da Vittorio Emanuele III – avrebbe dovuto rimanere fedele all’alleanza imperiale, accanto all’Impero Austro-Ungarico e alla Germania, espressioni residuali di un ordine monarchico e sacrale. Lo schieramento al fianco dell’Intesa (Regno Unito, Francia, Russia, Stati Uniti, e altri), determinato da logiche materialiste e opportunistiche, segnò una frattura con quell’orizzonte superiore (e si concluse, peraltro, con una “vittoria mutilata”, poiché, molte delle terre promesse all’Italia nel Patto di Londra del 1915, non furono concesse al termine del conflitto). Nel ricordo degli Arditi si celebra comunque il culto dell’azione, della disciplina interiore e dell’ascesi guerriera: un retaggio che può essere encomiato al di là delle contingenze storiche, come espressione di un’etica dell’onore, della verticalità e del sacrificio. [Simbolo storico degli Arditi del Regio Esercito (1917–1920). Fonte: www.arditigrandeguerra.it]
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13 Luglio 2025
🛡️ Socrate: filosofo, oplita, aristocratico nello spirito Socrate visse e insegnò nell’Atene democratica del V secolo a.C. (Atene, 470 a.C./469 a.C.[1] – Atene, 399 a.C.), ma fu tutt’altro che un sostenitore della democrazia. Nei Dialoghi platonici emerge con chiarezza la sua critica radicale alla demagogia, che alimentava il conflitto, la disgregazione dei costumi e un crescente spirito mercantilistico e materialista. Secondo Socrate, la democrazia, priva di un principio gerarchico stabile, genera una massa ingovernabile: così, la libertà illimitata si tramuta in disordine e la manipolazione retorica apre la via alla tirannide, vista come esito estremo della corruzione democratica. Tirannide e democrazia non sono opposte, ma due fasi dello stesso processo di decadimento di un ethos regale e sacro. Socrate, in questo contesto, tentò di rettificare l’ordine spirituale: la sua filosofia mirava a trasferire il centro di gravità della polis dalla materia allo spirito, opponendosi così a un’Atene sempre più dominata dai valori del commercio, del guadagno e della retorica. Nella Repubblica di Platone, questa visione si articola in una politeia organica e gerarchica, ordinata secondo la natura dell’uomo, in piena coerenza con l’idea tradizionale delle caste (varna): • al vertice, i filosofi-reggitori, garanti di una civiltà fondata sullo spirito e sulla conoscenza dell’Essere (funzione sacerdotale, brahmana nell'induismo); • poi i guerrieri, custodi dell’onore, della difesa e dell’ordine (funzione regale-guerriera, kshatriya); • infine i produttori, i mercanti, responsabili dell’economia e del commercio, ma senza dominare la polis (funzione produttiva, vaishya). Nel modello greco, la funzione servile che nell'induismo equivaleva alla classe degli shudra, non era integrata come casta, ma restava esterna alla comunità civica, coerente con la visione elitaria di una polis fondata sull’aristocrazia dello spirito. Questa struttura riflette un principio sacrale comune a tutte le civiltà tradizionali: l’ordine naturale delle funzioni, fondato su un vertice spirituale, era — come ricordano Evola e Guénon — la garanzia contro la degenerazione materialistica e livellatrice delle società moderne. Non a caso fu proprio la democrazia ateniese a condannare Socrate a morte: temendo chi richiamava l’uomo a un ordine superiore, sottratto al capriccio della folla. Spesso lo si rappresenta come un semplice intellettuale disincarnato, ma Socrate fu anche un oplita, un guerriero fedele alla città: partecipò a più battaglie, distinguendosi per fermezza, resistenza e virtù militare. In questo mostrava un tratto tipicamente dorico, erede di quell’ethos aristocratico, sobrio e virile che oggi molti dimenticano. La sua eredità resta dunque quella di un pensatore guerriero, rettificatore dell’ordine spirituale in un tempo di decadenza, custode di una civiltà fondata sullo spirito e sull’aristocrazia interiore, contro ogni deriva materialistica e tirannica livellatrice.

12 Luglio 2025
📖 Heidegger sulla radice dell’umanesimo e la formazione dell’uomo romano. «(...) È al tempo della Repubblica romana che l’humanitas viene per la prima volta pensata e ambita esplicitamente con questo nome. L’homo humanus si oppone all’homo barbarus. L’homo humanus è qui il Romano che eleva e nobilita la virtus romana attraverso l’«incorporazione» della παιδεία (paideia, educazione, formazione) assunta dai Greci. I Greci sono i Greci della tarda grecità, la cui cultura era insegnata nelle scuole filosofiche. Essa riguarda la eruditio et institutio in bonas artes. La παιδεία così intesa viene tradotta con «humanitas». L’autentica romanitas dell’homo romanus consiste in tale humanitas. A Roma incontriamo il primo umanismo. Nella sua essenza, quindi, l’umanismo resta un fenomeno specificamente romano, che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il cosiddetto Rinascimento del XIV e del XV secolo in Italia è una renascentia romanitatis. Riguardando la romanitas, la renascentia ha a che fare con l’humanitas e quindi con la παιδεία greca. Ma la grecità viene sempre considerata nella sua forma tarda e questa in modo romano. (...)» [M. Heidegger, "Lettera sull’umanesimo" (1946)] 🛡️ Commento Heidegger ci ricorda che l’umanesimo sorge nel cuore della romanitas come sintesi di virtus e paideia. La paideia non è mera istruzione, ma un processo formativo totale che plasma l’uomo nella sua interezza — intellettuale, morale, civica e persino fisica — per forgiare l’homo humanus, distinto dall’homo barbarus. Questa educazione integrale, eredità della tarda grecità, rappresenta l’autentica humanitas romana, un modello di formazione aristocratica e spirituale. Tuttavia, Heidegger, nello sviluppo del suo discorso, mostra come anche questo umanesimo antico, pur fondamentale, sia una tappa storica parziale, incapace di cogliere la domanda ontologica più profonda sull’essere dell’uomo; e lascia intendere, nel corso del libro, che l’uomo greco delle origini — nella sua prima esperienza di verità — aveva un modo più diretto e originario di rapportarsi all’Essere, prima che la cultura filosofica e scolastica lo razionalizzasse e codificasse. Risvegliarsi all’humanitas significa dunque, secondo il pensatore tedesco, anche interrogarsi oggi sulla natura profonda dell’uomo, oltre le forme esteriori di cultura e virtù. Mentre chi vi scrive, pur riconoscendo la grandezza della grecità delle origini, resta uno strenuo sostenitore dell’ordine gerarchico romano.

📜 “L’arca romana” di Gabriele D’Annunzio Non c’è più nulla da conquistare: né la gloria, né l’amore illusorio dei sensi. Solo la "forma" persiste — (cioè la bellezza fissata nell'eternità, la dignità muta, <> che sopravvive al corpo). Tuttavia non si tratta di un feticcio morto: bensì di un segno da custodire, un gesto interiore che può essere riconosciuto e rivissuto dai posteri: un passaggio di testimone. Il poeta si siede su un sarcofago romano, su cui è scolpita una battaglia del macedone Alessandro Magno — simbolo della gloria eroica, ma anche del narcisismo, che l’Occidente ha venerato per secoli. Da quel sarcofago cresce un oleandro: fiore sublime, sempreverde e al contempo velenoso, germogliato da quella grandezza, viva nell'eroismo e spenta nei tratti vanagloriosi. D’Annunzio lo lascia lì, e accetta – certo non in assenza di amarezza – la caducità della vita e delle passioni: mastica la foglia amara del lauro (consapevolezza della propria finitudine, gloria disillusa, che comunque non viene rinnegata, ma assimilata nel senso di continuità del proprio Sé), disfa la rosa vana dell’amore terreno. E accoglie il tramonto — lucido, fiero, senza mentire a sé stesso. Non chiede salvezza, al contrario, si siede eroicamente sulla storia: consegna, anche lui, alla stessa stregua dei miti antichi, un’eredità di stile, silenzio e memoria di una "funzione" svolta. Questo è l’eroismo muto e trasmissibile dell’ultimo D’Annunzio. P.S. Per la piena comprensione, e a completamento, della nostra breve ermeneutica, oltrechè a scopo di chiarimento in merito alla sua pertinenza, consigliamo la lettura della poesia successiva a questa, contenuta nella silloge "Alcyone": "L’alloro Oceanico". "L’arca Romana". ALPE di Luni, e dove son le statue? I miei spirti desìan perpetuarsi oggi sul cielo in grandi simulacri. O antichi marmi in grandi orti romani! Stan per logge e scalèe di balaustri, con le lor verdi tuniche di muschi. Negreggiano i cipressi i lecci i bussi intorno alla fontana ove il Silenzio col dito su le labbra è chino a specchio. Vede apparire dal profondo il teschio dell’eterna Medusa, la Gorgóne; vede sé fiso nel divino orrore. Lamenta i fati il grido del paone. Tutto è immobilità di pietra, vita che fu, memoria grave, ombra infinita. Un sarcofago eleggo, ov’è scolpita in tre facce una pugna d’Alessandro; pieno è di terra, e porta un oleandro. Quivi masticherò la foglia amara del mio lauro, seduto su quell’arca. Quivi disfoglierò la rosa vana dell’amor mio, seduto su quell’arca. [Gabriele D'Annunzio. Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, Libro III, Alcyone. Milano, Fratelli Treves Editori, 1908.]
25 Giugno 2025

"Impariamo la lezione di Klemens von Metternich" Klemens von Metternich", è uno degli esempi di politici a cui guardare per chiunque si definisca un vero conservatore, anziché meramente rinvangare ideologie nazionalistiche del secolo scorso che sono fallite <> per motivi di pura contingenza, ma non solo... poiché in realtà non tutta la sostanza umana fu all'altezza dei Principi professati, e inoltre fin da subito erano presenti i caratteri tipici del fanatismo, oltreché teorie populistiche che poco hanno a che vedere con gli ideali aristocratici che dovrebbero contraddistinguere il nostro indirizzo etico politico. Klemens von Metternich (1773–1859) fu il grande architetto dell’ordine europeo dopo la tempesta rivoluzionaria e napoleonica. Nato in una famiglia aristocratica del Sacro Romano Impero, visse in prima persona il caos politico e sociale generato dall’ideologia della Rivoluzione francese. Da lì maturò una visione lucida e organica: la vera libertà si regge sull’autorità, la stabilità sull’equilibrio tra potenze legittime, la civiltà sulla continuità storica, non sulla rottura. Ministro degli Esteri austriaco dal 1809 e poi Cancelliere imperiale dal 1821, Metternich guidò il Congresso di Vienna (1814–1815), restaurando le monarchie legittime e disegnando una geografia europea volta a contenere i fermenti disgregatori del liberalismo e del nazionalismo moderno. Il suo capolavoro politico fu il sistema della Restaurazione, sostenuto dal Concerto d’Europa: un’alleanza fra le grandi potenze per impedire il ritorno delle guerre rivoluzionarie e difendere l’ordine tradizionale. Ma questo equilibrio fu minacciato e infine travolto dalle rivoluzioni liberali e nazionaliste del 1848, che oggi vengono spesso presentate come “progresso”, ma che in realtà segnarono l’inizio del crollo dell’Europa organica. Quelle insurrezioni – animate da borghesie giacobine, patriottismi sentimentali e utopie parlamentari – posero le basi per le ideologie regressive del Novecento: totalitarismi, materialismo politico, culto delle masse, dissoluzione delle gerarchie. Quando Metternich fu costretto all’esilio nel 1848, non era solo un uomo a cadere, ma l’intera idea di una Europa ordinata, sacrale e gerarchica, fondata sulla legittimità storica e spirituale. In un’epoca come la nostra, priva di centro e divorata dall’ideologia, non dobbiamo mirare alle rivoluzioni liberali, né tantomeno al tentativo, purtroppo fallito, di ripristino dell'ordine romano del secolo scorso, ma tornare a pensare con la lucidità aristocratica di un Metternich: l’ordine non nasce dalla sovversione, ma dalla Tradizione; la libertà non nasce dall’eguaglianza, ma dalla gerarchia. "La verità sulle rivoluzioni del 1848: il popolo fu usato, non liberato" Nel 1848, in gran parte d’Europa, esplosero moti rivoluzionari che vengono ancora oggi celebrati come “la primavera dei popoli”. Ma a uno sguardo storico serio, quei moti non furono affatto un’espressione spontanea del popolo, bensì l’esito di un processo di manipolazione ideologica orchestrato da élite borghesi, società segrete, circoli intellettuali radicali e agitatori politici. Dietro lo slogan della “libertà” si celavano ambizioni parlamentari borghesi, desideri di potere di nuovi ceti emergenti, e progetti di ingegneria sociale contrari all’ordine naturale delle cose. Il popolo fu coinvolto come forza materiale, bensì non fu mai il soggetto consapevole della rivolta. Le masse, affamate da carestie e crisi economiche (1846–47), furono strumentalizzate per rovesciare gli assetti tradizionali, senza ricevere nulla in cambio. Dove i governi legittimi furono abbattuti, non seguirono giustizia sociale né benessere diffuso, ma caos politico, conflitti etnici, instabilità istituzionale. Le illusioni parlamentari non portarono ordine, ma divisioni, guerre civili e repressioni ancora più dure. In Francia, la Seconda Repubblica nata nel 1848 fu travolta già nel 1851 da un colpo di Stato che riportò al potere un Bonaparte. In Austria, il caos costrinse l’imperatore Ferdinando ad abdicare, tuttavia il nuovo regime tornò presto a reprimere con ancor più forza. In Italia e Germania, invece, le costituzioni liberali furono abrogate nel giro di pochi mesi. Il grande statista Metternich, costretto all’esilio da questi moti, aveva già colto tutto: «Le opinioni pubbliche? Non esistono: esistono soltanto passioni pubbliche, dirette da chi sa manipolarle.» — Metternich, Memoirs, vol. II (traduzione italiana da ed. francese) Le rivoluzioni del 1848 non furono progresso: furono la regressione mascherata da liberazione. Non distrussero la tirannide, bensì l’ordine. Non liberarono il popolo, al contrario lo esposero alla demagogia e al dominio del denaro. Se oggi vogliamo parlare di "resistenza", dovremmo resistere alle false narrazioni moderne che scambiano la dissoluzione per libertà e l’illusione parlamentare per giustizia. «Gli abusi del potere generano le rivoluzioni; le rivoluzioni sono peggio di qualsiasi abuso. La prima frase va detta ai sovrani, la seconda ai popoli.» (Klemens von Metternich)
19 Giugno 2025

11 Maggio 2025
Giusto per chiarire alcune mie posizioni, viste le accuse che di tanto in tanto mi vengono mosse per certi articoli... Le idee che esprimo, se proprio le si vuole inquadrare in un contesto "germanico", hanno semmai a che vedere con la Konservative Revolution — anche se, in realtà, non aderisco a un movimento specifico. Sono semplicemente un appassionato di filosofia, psicoanalisi ed esoterismo, avendo come faro metapolitico l’Impero Romano (pur con le dovute cautele). La Konservative Revolution non è Nazionalsocialismo. Nel dibattito culturale è fondamentale distinguere la Konservative Revolution tedesca degli anni ’20-’30 dal nazionalsocialismo hitleriano. Spesso accostati superficialmente, questi due fenomeni presentano radici, intenti e visioni del mondo profondamente diversi. La Konservative Revolution fu un movimento metapolitico e culturale, nato in risposta alla crisi della modernità, alla decadenza spirituale dell’Occidente e all’omologazione liberal-democratica. Autori come Carl Schmitt, Ernst Jünger, Oswald Spengler e Moeller van den Bruck ne furono i principali esponenti. La loro critica era filosofica, storica e spirituale — non razziale, né totalitaria. Il loro orizzonte era una rigenerazione dell’ordine e della tradizione, non l’imposizione di una biopolitica di massa. L’ideale di potere, per questi pensatori, derivava da un principio superiore, spirituale prima che materiale: una visione organica, aristocratica e sacrale della società, in cui ogni funzione occupa spontaneamente il suo posto in un ordine verticale. Il nazionalsocialismo, al contrario, fu un movimento politico totalitario (non organico), populista, fondato su un biologismo naturalistico, su un antisemitismo fanatico e su una glorificazione ossessiva della razza. Pur avendo talvolta mutuato slogan o simboli dalla Konservative Revolution, ne tradì profondamente il pensiero, riducendolo a ideologia di massa e propaganda. Molti esponenti della Konservative Revolution si opposero o si tennero a distanza dal regime nazista, che vedevano come una degenerazione plebea, nichilista e grossolana del pensiero tradizionale. Naturalmente, non si schierarono neppure con il comunismo bolscevico, come invece fece parte della nostra Resistenza. Sintetizzando: – La Konservative Revolution è una corrente filosofico-politica di alto profilo, elitaria e aristocratica. – Il nazionalsocialismo è un’ideologia di massa, totalitaria, ossessionata dalla razza e dal controllo sociale. Comprendere questa distinzione significa non solo fare giustizia alla complessità storica, ma anche riconoscere che non ogni critica alla modernità equivale alle derive totalitarie del Novecento.
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La Tradizione incontra la Fiamma Nera.
" L' Associazione "Arte e Poesia Nella Notte" dichiara la propria estraneità a tematiche politicamente sensibili, razziste, discriminatorie o idonee a generare incitamento all'odio, limitando la propria attività alla valutazione delle opere esclusivamente sotto il profilo artistico "
Il Presidente - James Curzi

12 Ottobre 2025
#6 The Poetry Of Black Metal Ûlairi – "Winter Infernal" (2025) [Sacrafiamma – DeBaser.it] Gli Ûlairi sono una international black metal band con membri già piuttosto navigati in ambito underground, provenienti da Norvegia, Spagna e Stati Uniti. Tra essi, alla voce, figura un personaggio semisconosciuto ma interessante: lo spagnolo Sanguinous Moth, che seguo con attenzione per via degli ottimi lavori pubblicati con uno dei suoi progetti, i Vampyric Winter. Forti di un buon debutto rilasciato nel 2024, l’omonimo "Ûlairi", i tre blacksters tornano sul mercato in maniera indipendente proprio in questi giorni di inizio ottobre 2025 con il loro secondo full-length: "Winter Infernal". Come si può facilmente intuire dalla copertina stessa, oltre che dal titolo, siamo di fronte a un disco totalmente devoto al classico sound lo-fi della Norvegia della prima metà degli anni ’90. La matrice di riferimento si può inquadrare perlopiù negli Immortal di "Pure Holocaust" (1993) e "Battles in the North" (1995), su cui si posa l’ombra oscura dei primi Darkthrone. I tremolo sono taglienti e affilati come stalattiti di ghiaccio scheggiate; i suoni saturi, insieme ai terremoti di blast beat, simulano tormente di neve apocalittiche, dove uno scream straziante accompagna l’ascoltatore nei meandri di quel fondo nero in cui la morte, oltre che orizzonte ultimo della vita, diviene immanentemente la vita nella sua interezza. Still... Black Fucking Metal. “We are not dead We have never lived” [Burzum – "Det som en gang var"] Voto: 7,5

22 Settembre 2025
#5 The Poetry Of Black Metal Cachot d'Effroi – "Dans le cimetière abandonné" (2025) [Testo originariamente pubblicato su DeBaser] Appartenente a quella frangia di scuola francese ancorata alle prime releases norvegesi, sia in termini compositivi – pur con le dovute personalizzazioni soprattutto sul piano del pathos e dell’eleganza – che di produzione lo-fi, Cachot d'Effroi, progetto interamente guidato da Carcasse Enchaînée, rilascia nuovamente il suo secondo full-length – la cui prima stampa avvenne in maniera indipendente nel 2024 – tramite la grandissima Drakkar Productions: "Dans le cimetière abandonné". La matrice darkthroniana di riferimento resta sempre piuttosto preminente, come d’altronde già manifestato nell'omonimo esordio, ma seguendo una via meno atmosferica e con un tocco DSBM che in alcuni passaggi risulta realmente marcato. Carcasse Enchaînée assimila alle tipiche grammatiche iconoclaste della fiamma nera l’afflato romantico del decadentismo francese, e qualche dinamica Post piuttosto melodica che, tuttavia, rimane sempre contenuta, senza dunque entrare in contrasto con la struttura di base. "Dans le cimetière abandonné" emana un’aura cimiteriale a cui resta difficile resistere... Proprio come ogni oscura malia, la cui potenza risiede nel fascino conferito dai suoi risvolti letali. Si tratta di un LP per soli intenditori ed amanti della vecchia guardia e, in particolare, per chi ben digerisce la poetica d’oltralpe... Qui è inevitabile richiamare nomi come Celestia, Mortifera, Nehëmah e Darvulia, bensì anche qualcosa delle iconiche Les légions noires (soprattutto Belkètre e Mütiilation). ...Un’altra ottima uscita di questo nero e infausto 2025. Voto: 7,5

19 Settembre 2025
#4 The Poetry Of Black Metal Stahlnacht– "Blood Victory" (2025) [Testo di Sacrafiamma, originariamente pubblicato su DeBaser] Questo 2025 si riconferma un'annata d'oro per il black made in USA (Sepulchre, Collier d'Ombre, Lichen, Lazar Throne, Paimon Gate, Azathoth’s Dream, ecc.ecc.) e ce lo dimostra il misterioso progetto Stahlnacht, di cui, in piena tradizione misantropica, tutto ci è ignoto. Dopo il buon EP del 2024 "Reclaiming Nordic Divinity", viene rilasciato in questi giorni di fine settembre 2025, sotto il patrocinio della Åon Records, il primo full-length: "Blood Victory". Si tratta di un Raw Black Metal dai tratti nazionalisti che affonda le sue radici nei primi due LP del Conte, nell'oscurità gelida dei migliori Darkthrone e nella scuola tedesca di Absurd e Nargaroth, ma anche Moonblood e Bilskirnir, con alcuni fraseggi chitarristici più "melodici", ai limiti del Folk-blues, accostabili ai Peste Noire. Il taglio dei brani è grezzo e tagliente: si alternano passaggi furiosi e iconoclasti ad altri più atmosferici e inquietanti, dove trovano respiro rallentamenti scanditi da toni declamatori in lingua germanica, afflati epici e una poetica tra il malinconico e il desiderio di riscatto di un passato glorioso, scaturente dalla rievocazione del Mito del Sangue... Anche, e forse soprattutto (al di là dei giudizi etici), questo è il Black Metal: una coalescenza di malinconia romantica, gelo siderale, ricami folcloristici e furia nera... scaldati al calor bianco dell'amor di patria. Voto: 8

04 Agosto 2025
#3 The Poetry Of Black Metal Tsjuder – "Kill for Satan" (2000) "Black fucking metal" in tempi di decadenza Nel cuore di Oslo, nel 1993, quando il black metal norvegese era nel pieno della sua deflagrazione mitica, nascono gli Tsjuder per mano di Nag (voce/basso) e Berserk (chitarra). Il progetto prende forma nel sottobosco delle demo tape e guadagna notorietà con l’ingresso di Draugluin, diventando un embrione dedito alla forma più intransigente e brutale della fiamma scandinava. Tuttavia, Berserk lascia presto la band, prima della registrazione dell’album d’esordio, e la line-up si stabilizza con Nag, Draugluin, Arak Draconiiz alla chitarra e Anti-Christian alla batteria, con cui viene inciso "Kill for Satan", pubblicato nel gennaio del 2000 sotto l'egida della gloriosa Drakkar Productions. Quando il disco esce, il mondo attorno è già cambiato. Il periodo d’oro del black metal norvegese è alle spalle: Burzum è fermo per via del carcere; Darkthrone, Immortal, Mayhem, Emperor, Satyricon, Ulver ed Enslaved hanno già scritto la storia tra il 1992 e il 1997. Le uscite rivoluzionarie e i capolavori si sono già sedimentati nella memoria dell’underground. In Svezia, Marduk, Setherial, Dark Funeral e Dissection hanno già forgiato l’altro volto del black europeo, più tecnico e a tratti più “lucido” nei suoni. In Finlandia, Impaled Nazarene e Beherit avevano fatto lo stesso in una direzione più intransigente, e alcune nuove formazioni della seconda generazione erano già sorte. È una fase calante, segnata da derive sinfoniche, sperimentalismi e prime forme di contaminazione "mainstream". Ma è anche in questa fase, proprio nel 2000, che gli Tsjuder decidono di non voltarsi, di non "evolvere", e anzi di riaffermare – con odio e blasfemia – la purezza del verbo originario. "Kill for Satan" è un disco ruvido, tagliente, maligno: un tributo senza compromessi alla tradizione più malvagia del black norvegese, con ritmi forsennati, riff scarni e un’estetica cruda, volutamente grezza, dove ogni forma di “modernità” è bandita. I brani sono diretti, concisi, imbevuti di spirito guerrafondaio, monocromatismo old school e quella gelida misantropia che aveva fatto grande la scena dieci anni prima. Non c'è spazio per l’introspezione né per l’avanguardia: solo odio, ghiaccio e fiamme infernali. Tuttavia, la proposta monodirezionale – con forti radici in Immortal, Mayhem, Darkthrone e Ragnarok – del gruppo appare ispirata e per niente banale, integrando nel proprio sound una serie di articolazioni piuttosto tecniche che pescano – pur nell'aderenza alla fiamma nera – dal thrash e dal death metal (compreso qualche piccolo accenno di growl), vivacizzando e rendendo, per quanto possibile, ancora più distruttiva la loro musica (la batteria è un vero e proprio missile). Indubbiamente, "Kill for Satan" è un album storicamente inutile, e ci presenta una band dallo stile già segnato – in quanto mai si evolveranno da questi cardini artistici – ma, oltre ad essere, insieme ai due successivi, uno dei migliori platter degli Tsjuder, è una delle forme di espressione più spontanee e violente che il black metal abbia mai conosciuto. Voto: 8,5

03 Agosto 2025
#2 The Poetry Of Black Metal Khaos Aura – "Thorn Bringer" (2025) «Anti Human Anti Life Anti Christ» Con le frasi che vedete in testa alla recensione, il duo norvegese Khaos Aura presenta la sua terza opera lunga, "Thorn Bringer", rilasciata a fine giugno 2025 tramite la semisconosciuta etichetta Sonorous Night. Come si può facilmente intuire dalle prime tre frasi, si tratta di un gruppo che propone una forma di Black metal quanto mai tradizionale, sia in termini stilistici che di produzione, dove la voglia di innovare è pari a zero, così come la fantasia non è propriamente ai suoi massimi livelli. Tuttavia, ho deciso di supportarli ugualmente: un po’ perché sono un blackster incallito e non potrei mai abbandonare un certo tipo di sonorità; e un po’ perché il cuore dei Khaos Aura pulsa sangue nero con tanta di quella veemenza e nostalgia per un passato glorioso – affondante le sue radici nei primi album dei Gorgoroth e di Burzum – che non potevo restarvi indifferente. I due norvegesi riescono a tenere alto il filo del pathos, e con tremolo minimali, sezioni atmosferiche dove si avverte un leggero utilizzo di synth tra i riverberi e qualche altra effettistica che dona un tocco di misticismo nordico, insieme a ruvidi intarsi melodici, scaldano l’anima e avvolgono con tutto il fascino elitario della vecchia fiamma nera... Lì, dove domina il distacco, l’alienazione ai limiti dello psicotico... Dove soffia forte il vento epico e malinconico dei fasti della tradizione norrena... Dove, tra i vortici oscuri, si concretizza il mito... Lì si stabilizzano i Khaos Aura. Indubbiamente, "Thorn Bringer" non è un capolavoro, e difficilmente gli si potrebbe attribuire più di un 7,5... Tuttavia, qui dentro, la passione brucia forte.

28 Luglio 2025
#1 The Poetry Of Black Metal Savaging – "Vignettes of Cruelty and Callousness" (2025) "Un debutto Black Metal composto da otto tracce che dipingono un ritratto sonoro di depravazione, desiderio, crudeltà e delirio di una psiche fratturata." — Into Extinction, 2025 "Vignettes of Cruelty and Callousness" è il debutto dei Savaging, duo californiano composto da Nox Timor (strumenti) e Glossolalion (voce), pubblicato dalla Into Extinction in questo luglio 2025. Ci troviamo di fronte a un album che si colloca con decisione all'interno delle coordinate più cupe e atmosferiche del black metal, in particolare nelle sue declinazioni depressive e suicidal. Il sound è profondamente emotivo, contrassegnato da tempi lenti, riff ciclici e claustrofobici, con un uso sobrio ma efficace della melodia. Non si indulge più di tanto in derive post-black, e questo è uno dei grandi pregi del disco: "Vignettes of Cruelty and Callousness" evita le sovrastrutture più moderne, patinate ed eccessivamente armoniche del genere, restando invece ancorato a una concezione vecchia maniera. In questo senso, le atmosfere possono far pensare a formazioni storiche come Forgotten Woods, nei frangenti più melodici, o agli episodi più dilatati e ossessivi del Conte. Allo stesso tempo, emergono affinità con realtà statunitensi più recenti come i Chaos Moon, e in certi momenti si avvertono persino gli echi angoscianti dei lavori dei Nyktalgia, uniti al misticismo onirico, ebbro e carico di pathos, di una band che il sottoscritto ama molto: gli Urfaust. Ciò che rende il full-length efficace è l’equilibrio tra stasi e movimento: il songwriting sa essere lento, opprimente, doloroso, ma senza mai cadere nella ripetitività. Le strutture si aprono spesso a ripartenze improvvise, in cui il gruppo si slancia su accelerazioni tipiche del black metal tradizionale. La tensione emotiva non si allenta mai: è un'opera intensa, sentita, priva di manierismi, che coinvolge proprio perché rifiuta l’estetizzazione forzata del dolore. Le melodie, dosate con attenzione, contribuiscono a costruire un’aura crepuscolare e naturalistica, per certi versi vicina alle frange più oscure del Cascadian, pur senza aderirvi in senso stretto: non diluendo mai più di tanto l'estremità sonora della fiamma nera più ancestrale. La produzione, volutamente grezza, contribuisce ulteriormente a rafforzare il senso di decadenza e isolamento che permea tutta l'opera. In definitiva, "Vignettes of Cruelty and Callousness" è un lavoro coerente, maturo e appassionato, che si rifà con lucidità e consapevolezza alle radici più autentiche del depressive black metal, senza altresì risultare una mera emulazione. Certo, non mancherà chi – armato di gusti arcobalenici e palato fino – farà notare piccole minuzie... non è colpa sua. Un debut che colpisce e convince, probabilmente tra le migliori uscite del 2025 nell’ambito underground estremo. Voto: 8
Musica:
Tradizione e fatalità.
" L' Associazione "Arte e Poesia Nella Notte" dichiara la propria estraneità a tematiche politicamente sensibili, razziste, discriminatorie o idonee a generare incitamento all'odio, limitando la propria attività alla valutazione delle opere esclusivamente sotto il profilo artistico "
Il Presidente - James Curzi

13 Ottobre 2025
#2 The Fatality of Death Metal Burial – "Enlightened with Pain" (2000) [Sacrafiamma – DeBaser.it] Siamo nell’anno 2000 e i dettami del Brutal erano già stati stilati dai capostipiti Cannibal Corpse e Suffocation da ormai quasi una decade. I Suffocation dischiusero il genere alle varianti più technical ed estreme (vedi lo slam e il sick), portate avanti da band come Cryptopsy, Dying Fetus, Nile, Deeds of Flesh, Devourment, Internal Bleeding, Pyrexia, Sintury, Disgorge, Brodequin, ecc. ecc., che finirono per adombrare il classico sound del Brutal della prima metà dei ’90. I Cannibal Corpse tenevano duro con la loro miscela classica, iniziando a sperimentare con qualche innesto thrash nel loro sound; tra le band decise a non cambiare vi erano anche gli statunitensi Burial, formatisi nel lontano 1995 ma giunti al rilascio del primo full-length soltanto nel 2000: "Enlightened with Pain" (Lost Disciple Records). "Enlightened with Pain" è un vero gioiellino di Brutal old-school, sia per quanto pertiene l’aspetto compositivo che quello dell’attitudine e della produzione (dal sapore analogico e affatto artefatta). Un disco che vola via in un soffio con i suoi soli 35 minuti spalmati su 10 tracce. Brani veloci che arrivano diritti al punto e con un tiro devastante, senza tuttavia scadere in inutili banalità o in noiose ripetizioni. I Burial, da veri professionisti del Brutal, sanno quando scalare la marcia, tuffandosi in rallentamenti asfissianti, oppure inserire quel giusto quid “melodico”, frequentemente dal gusto thrashy; e quando invece essere tecnicamente più raffinati, giocando con rapidi cambi di ritmo, riffing circolari e linee vocali sempre ficcanti. Se non conoscete "Enlightened with Pain" vi consiglio di recuperarlo al più presto. Seppur debba essere considerato un album marginale, totalmente inutile per quanto pertiene lo sviluppo del Brutal, è un prodotto di una qualità – riconfermata crica 9 anni dopo con il secondo e ultimo LP "Divinity Through Eradication" – tanto elevata quanto, purtroppo, rara al giorno d’oggi. Voto: 8

30 Luglio 2025
#1 The Fatality of Death Metal "Coffin of the Corrupted Dead" (2025) dei Podridão: il Sud America continua a dettare legge nel death metal" Formatisi nel 2016 a Itaquaquecetuba, São Paulo, i brasiliani Podridão sono una delle tante realtà estreme provenienti da un continente che, negli ultimi anni, sembra essersi trasformato in una vera e propria terra d’oro per il metal più crudo e intransigente. Con all’attivo una manciata di EP e split, "Coffin of the Corrupted Dead" rappresenta il quarto full-length del gruppo, pubblicato in questo luglio 2025 sotto l’egida della Kill Again Records. La sensazione dominante, ascoltando questo lavoro, è quella di trovarsi di fronte a un death metal profondamente primordiale, istintivo, dove l’urgenza emotiva e la violenza pura hanno la priorità assoluta su ogni altra cosa. Qui non si cerca la perfezione tecnica né si indugia su orpelli digitali: si punta dritto al cuore della brutalità. Il sound è grezzo, sì, ma non confuso: la produzione mantiene volutamente un sapore old school, pur risultando perfettamente comprensibile grazie a un uso consapevole delle tecnologie moderne. Le influenze sono chiare: Morbid Angel, Deicide, Malevolent Creation, e, nei rallentamenti più putrescenti, Autopsy e Obituary. È un disco che trasuda death metal da ogni poro, dove la forza trainante è il feeling e il bilanciamento tra up, mid, e down tempo: riff oscuri e diretti, batteria tellurica, ripartenze al fulmicotone, e una voce cavernosa che sa farsi strumento di distruzione emotiva. Tutto si gioca sulla persistenza dell'impatto. Viene da pensare che oggi, per trovare metal estremo fatto con l’attitudine giusta, ci si debba davvero rivolgere all’America Latina. Dai Cancerbero, agli Uttertomb e ai Mortual in ambito death, fino ad Abmut, Empillarist, Savagery e Castrivenian sul fronte black: è da lì che arrivano alcune delle proposte più autentiche e devastanti del panorama underground. Laddove altrove dominano pulizia, produzione levigata e studio certosino, qui sopravvive l’adrenalina, la spontaneità della forma canzone e il feeling ancestrale: tutto inserito in un contesto di padronanza dello strumento adeguatamente calibrata. "Coffin of the Corrupted Dead" è un pugno nello stomaco dato con classe. Solo per gli amanti della vecchia guardia. Voto: 8


















