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Adriano Romualdi, "Julius Evola: l'uomo e l'opera", 1968, p.47, edizioni di AR

«(...) Quel che separa il mondo tradizionale dal mondo moderno è che, mentre quest’ultimo si fonda sui criteri dell’utile e del tempo, il primo si riferisce ai valori del sacro e dell’eternità.

La vita, come venne vissuta nell’ambito delle civiltà tradizionali, trae la sua luce da una sfera superiore dell’Essere, che sola conferisce un senso alla convulsa vicenda del divenire. Essa è ripetizione nel tempo di talune azioni che si collocano fuori dal tempo — nel clima del mito e del rito — e che assicurano a chi le compie la partecipazione ad essenze non periture.


Il rito, il sacrificio, la legge, sono i grandi pilastri dell’ordine tradizionale; l’iniziazione costituisce la seconda nascita, l’atto di transito tra il visibile e l’invisibile; la contemplazione e l’ascesi guerriera le due grandi vie della realizzazione di sé, quelle che allontanano per sempre dalla «via delle madri», dagli «inferni», — il caos delle ombre originarie, — per schiudere «la via dei padri», del germanico Asgard, dell’incaica «casa del Sole», dell’immortalità eroica.

La società tradizionale è ispirata dall’alto e rivolta verso l’alto: essa culmina in un’aristocrazia eroica e religiosa che esercita una funzione non soltanto politica ma pontificale, nel senso che stabilisce un «ponte», un contatto tra mondo e soprammondo. «Chi è capo ci sia ponte» sta scritto appunto in un’antica saga. (...)»


[Adriano Romualdi, "Julius Evola: l'uomo e l'opera", 1968, p.47, edizioni di AR]


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